Aikido: errori di valutazione
Nella pratica dell’Aikido a volte accade che le tecniche si concretizzino nell’utopico e maldestro tentativo di copiare un gesto, una forma o una “waza“.
Si viene distratti da quello che si “vede” e si vede solo ciò che si pensa di conoscere.
Si tralasciano i principi, le sensazioni e le attenzioni verso di sé e verso l’altro/a a discapito del raggiungimento di un obiettivo: la sopraffazione del nostro interlocutore.
Nonostante le buone intenzioni che dovrebbero muoverci, nonostante Uke spesso venga definito Aite (ossia compagno e non avversario), nonostante l’abuso della parola rispetto, l’ANIMALE che è in ognuno di noi (il vero nemico da sconfiggere) emerge costantemente.
Tuttavia una volta fatto il danno, le scuse servono a poco!
Chi non ha potuto esercitarsi per qualche tempo a causa delle disattenzioni proprie o del compagno di pratica, lo sa bene.
Ricordo che la prima responsabilità per un insegnante, ma anche per tutti i praticanti, è la salvaguardia e la tutela della salute di tutti coloro che si trovano sul tatami.
Dal 1989, anno in cui ho iniziato a praticare, gravi problemi fisici conseguenti all’aikido onestamente non ne ho avuti; per questo posso in parte ringraziare un destino clemente ma anche il mio percorso di studi che mi ha educato a vedere e a prestare attenzione ai particolari e ai compensi messi in atto in maniera inconscia miei e degli altri aikidoka.
I risultati di questa più attenta osservazione si traducono in una maggiore consapevolezza di ciò che accade e, come logica conseguenza, il tentativo di migliorare ciò che risulta potenzialmente migliorabile.
Una cisti al tendine del polso sinistro che è durata qualche anno (conseguenza di leve al polso tirate male o subite male) che aumentava e diminuiva fino a scomparire con leve contrarie e auto-massaggi, mi ha fatto riflettere sulla possibilità di migliorarmi anziché traumatizzarmi.
Spunto per ulteriori riflessioni sono state l’esperienze vissute in prima persona o da altri insegnanti che in diversi stage hanno evidenziato le discutibili condizioni fisiche di coloro che vantano decenni di pratica e che a torto o a ragione vengono ritenuti i detentori del sapere.
E allora mi e vi domando:
- Perché si dovrebbe ricercare una disciplina da praticare per la vita per arrivare a una condizione di salute discutibile con problemi alle articolazioni, fratture, lesioni muscolari?
- Raggiungere i più alti gradi Dan a che prezzo?
- Per cambiare colore quando cambia il tempo?
- Prendere antidolorifici per contrastare deformità ossee dovute a posture innaturali per il nostro corpo ma corrette e insindacabili per la didattica e l’etichetta?
Forse sarebbe più conveniente ambire ad una vecchiaia sana che ci permetta di praticare il più possibile, insegnare, imparare, condividere con serenità e salute.
E cosa dire della divisa?
- Quelli con l’hakama sono bravi e quelli senza no?
- Se incontro uno con l’hakama è un Dan quindi sa fare e vado tranquillo mentre se ha solo le braghe bianche devo stare attento?
- E se ha l’hakama quanti Dan avrà?
- Se lo conosco so cosa sa fare e soprattutto lui conosce me.
- Ma se non lo conosco?
Insomma possibile che ci si debba basare su dei pezzi di stoffa che vestono solo delle apparenze per capire con chi si ha a che fare?
Quanti luoghi comuni. Quante cantonate si prendono. Quanti errori di valutazione!
Tutto questo è forma ed estetica, spesso per colmare un vuoto.
Dove sono finiti i principi che regolano la vita?
Perché non si sceglie di percepire sensazioni, stimoli, emozioni e questo benedetto KI?
Se solo si fosse meno distratti da quello che si vede e si cominciasse a dare ascolto a quello che si sente, si riuscirebbe a capire con chi si ha a che fare ancora prima di entrarci in contatto fisicamente.
Sentire non solo “chi“, ma anche “come“: qual è il suo stato mentale e fisico, che intenzioni ha, quale è la sua energia e come la usa.
E se non siamo ancora a questo livello di percezione, almeno quando entriamo in contatto con una presa, dovremmo essere in grado di sentirla.
Che importa com’è vestito, se fa la faccia brutta o sorride, se ci fissa o cerca altri sguardi sul tatami.
- È con lui?
- È con noi?
- È con altri?
- Oppure non c’è?
- Cosa trasmette?
- Cosa sentiamo noi e cosa cerchiamo di trasmettere all’altro?
Sono queste le cose belle da vivere nella pratica.
Se si lavorasse in questo modo, difficilmente si commetterebbero degli errori; il rispetto per il prossimo verrebbe esaltato, si vivrebbe la vera presenza e senza paura ci si muoverebbe più sciolti e liberi perché veramente responsabili di quello che accade e che facciamo accadere.
Ecco un po’ di Aikido, quello bello, quello per cui vale la pena continuare a ricercare e scoprire tesori sempre più profondi dell’animo umano.
Se daremo più ascolto alle sensazioni rispetto a quello che vediamo, saremo più presenti nella nostra vita.
Buona pratica sana 🙏🏻
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